Le ricette sono opere d’arte? Il diritto d’autore in cucina

L’arte culinaria è a tutti gli effetti assimilabile ad altre manifestazioni artistiche e creative. Eppure in questo settore non c’è ancora pratica di valorizzazione economica della fantasia. Servirebbe, invece, una profonda riflessione sugli strumenti giuridici più adeguati

 

Supponiamo che un importante ristoratore metta in carta un piatto uguale ad una ricetta originale di un altro importante chef, magari senza rilevare la provenienza dell’idea o, peggio ancora, sostenendo che l’idea sia farina del suo sacco. Sarebbe normale che lo chef imitato si tutelasse dal plagio, essendo l’arte culinaria assimilabile a tutti gli effetti ad altre manifestazioni artistiche e creative e quindi degne di difesa degli sforzi di immaginazione. E invece no. Ciò non avviene, anzi. Nel caso degli chef o dei cuochi di alta gamma (quelli che offrono ricette ad alta creatività) non c’è pratica di valorizzazione economica della fantasia o dell’immaginazione. Non si rincorrono diritti di natura personale (come la paternità) o patrimoniale (come lo sfruttamento economico-commerciale) della creazione artistica. Ciò è curioso perché anche il mondo dell’arte figurativa recentemente si è avventurato sui diritti di autore. Pochi mesi fa il pittore Emilio Isgrò — noto internazionalmente per la sua grammatica della «cancellatura» — ha acceso una battaglia legale per violazione del copyright nei confronti dell’ex-frontman dei Pink Floyd Roger Waters, reo di aver usato una sua opera del 1964 per illustrare l’album Is This The Life We Really Want?. Una controversa giuridica che è andata avanti per mesi, durante la quale l’artista siciliano ha ottenuto dal Tribunale di Milano il blocco della vendita del CD e il riconoscimento di plagio della copertina, del libretto e delle etichette. Si diventa autore dell’opera di ingegno, dunque, nel momento stesso in cui essa viene creata. E l’autore, per godere della tutela, deve curare di provare l’anteriorità della propria creazione rispetto ad altri eventuali professionisti che pretendono di vantare diritti sull’opera medesima.

Nel caso, però, delle opere innovative gastronomiche vi è sempre stata molta confusione tanto che, dal punto di vista giuridico, a tutt’oggi nell’intero pianeta non esiste una definizione unitaria del problema. Non c’è un solo criterio prestabilito per cui il plagio scatterebbe in automatico dopo aver copiato un processo originale in cucina: è molto raro, quindi, l’uso di brevetti, di ricorso al copyright, di trademark, o di altre tecnicalità giuridiche. Né è chiarissimo, per riconoscere correttamente la sussistenza o meno di una violazione del diritto di autore, se il processo creativo definito dal plagio sia: il piatto risultante che deve presentare un look del tutto somigliante; il gusto del piatto che si imprime in modo simile nella memoria di coloro che lo consumano; oppure il processo di fabbricazione e dunque la struttura della ricetta.

In assenza di un diritto che protegge la forma espressiva dell’opera, gli chef si rassegnano alla difesa attraverso le norme sociali condivise, grazie anche al fatto che la comunità degli chef vive molto sulla reputazione dei singoli (a sua volta spesso sostenuta dalla vanità e dal narcisismo dei protagonisti). Ciò che si ricerca e si apprezza è la considerazione dei colleghi. A questo proposito, è significativo il caso del ristorante «In Situ» del Museo di Arte Moderna di San Francisco, dove lo chef Corey Lee, cuoco tristellato, ha raccolto nel menu l’innovazione di celebrity chef di tutto il mondo, ovviamente tributando ad essi la paternità esplicita del piatto. Naturalmente si tratta di riproduzioni dei piatti originali, di falsi d’autore. Ma fedelissimi, come se fossero usciti dalle mani che li hanno creati. Un «plagiatore» autorizzato, insomma. E gli innovatori italiani sono cinque: Massimo Bottura con «Oops! Mi è caduta la crostata al limone», Gennaro Esposito con gli «Spaghetti al pomodoro del Vesuvio», Massimiliano Alajmo con il «Cappuccino di seppie al nero», Riccardo Camanini con lo «Spaghettone, burro e lievito di birra» e Niko Romito con il «Risotto parmigiano, acqua e limone». L’imitazione (o l’emulazione) è quindi la massima espressione della venerazione nel clan: quanto più sei imitato, tanto più sei bravo ed eccellente. L’orgoglio lievita e gli interessi economici degli chef spesso scivolano in secondo piano.

Ciò spiega, quindi, perché i molti riecheggiamenti di ricette famose non hanno in passato attivato litigation violente, paragonabili ad altre che invece avvengono nel mondo della moda o del design o del resto delle industrie creative. Si pensi al celebre risotto con foglie d’oro di Gualtiero Marchesi o alla passatina di ceci con gamberi di Fulvio Pierangelini o al vulcano di maccheroni di Alfonso Iaccarino o ai tortelli alla carbonara di Heinz Beck o agli spaghetti al cipollotto di Aimo e Nadia o alla cipolla caramellata di Davide Oldani, ognuno dei quali imitati in tutto il mondo. L’ultimo caso è proprio delle scorse settimane ed è visibile su Instagram. Una pizzeria gourmet milanese ha postato una foto della «margherita sbagliata», corredando l’immagine con l’informazione che essa fosse una novità originale del ristorante. Peccato che quel piatto, una pizza con sottostrato di mozzarella e sopra adagiato pomodoro riccio del casertano e pertanto con ribaltamento dei ruoli gerarchici della consueta margherita, sia stato inventato parecchi anni fa da Franco Pepe di Caiazzo (il pizzaiolo-artigiano considerato dai critici il numero uno al mondo) e che da allora vanti, come la Settimana Enigmistica, innumerevoli tentativi di imitazione. Ma Franco Pepe non ha spirito di vendetta e se la prende con filosofia partenopea: «Per me queste sono occasioni di soddisfazione. Ritrovare la mia pizza in tutto il mondo equivale a riconoscere che l’idea abbia funzionato. Ricevo settimanalmente fotografie di “margherite sbagliate”, fabbricate nei ristoranti delle diverse latitudini. E ciò per me è un tripudio. Certo, sarebbe corretto citare la fonte e forse ciò è alla fine un sintomo di mancanza di creatività altrui».

È vero, forse troppa protezione delle idee potrebbe creare barriere e ostacoli alla circolazione della fantasia. E ciò in particolare nei contesti dei giovani cuochi che stanno imparando il mestiere, abbeverandosi dell’immaginazione dei colleghi più celebrati. Ma è anche vero che, se la enogastronomia di qualità è una delle migliori tradizioni del Made in Italy, una più profonda riflessione e una ricerca di strumenti giuridici al passo con i tempi sarebbero un sforzo non irrilevante.

 

Articolo di: “www.corriere.it”